La scena è familiare: un bambino piccolo che urla, si agita, piange, senza un motivo apparente. Per l’adulto, è difficile comprendere. Per il bambino, è l’unico modo per comunicare. E in quel pianto, in quella crisi, c’è un messaggio importante: “Aiutami a gestire quello che sento”.
Nei primi anni di vita, la regolazione emotiva è ancora un processo in costruzione. I bambini non nascono con la capacità di riconoscere, nominare e contenere le emozioni: imparano, giorno dopo giorno, attraverso lo specchio emotivo che gli adulti offrono loro. È proprio nella relazione, nell’essere accolti, che possono cominciare a dare un nome a ciò che provano.
“I bambini non sanno dire cosa provano, ma ci fanno sentire ciò che non riescono ad esprimere.” — Daniel N. Stern
Durante la prima infanzia, il cervello è ancora in pieno sviluppo: la parte più razionale (la corteccia prefrontale) non è ancora completamente formata. A dominare è il “cervello emotivo”, quello che reagisce d’impulso, che cerca contenimento e che ha bisogno di modelli esterni per autoregolarsi.
Per questo motivo, aspettarsi che un bambino piccolo “si calmi da solo” è irrealistico. Più che contenere l’emozione, serve contenere il bambino: con lo sguardo, la voce, la presenza. È in quella co-regolazione che nasce la sicurezza emotiva.
Ecco alcune strategie semplici ma potenti:
– dare un nome alle emozioni (“Vedo che sei arrabbiato, il tuo viso è tutto rosso”);
– validare, senza negare (“Capisco che sei triste perché non puoi avere quel gioco”);
– offrire strumenti alternativi (“Quando sei arrabbiato puoi stringere forte il peluche, o respirare con me”);
– restare accanto, senza giudizio. Non servono grandi discorsi. Basta esserci.
Durante un percorso di sostegno alla genitorialità, una madre raccontava di sentirsi spesso sopraffatta dagli scoppi d’ira della sua bambina di tre anni.
Le sembrava di non saperla “gestire”. Abbiamo lavorato insieme su una semplice strategia: fermarsi, mettersi accanto, accogliere senza parlare. Dopo alcune settimane, la mamma condivide: “Quando si arrabbia, non urla più come prima. Mi viene vicino, mi guarda. A volte si siede sulle mie ginocchia e respira con me. Non devo fare nulla, solo esserci.” A volte, è proprio nel silenzio condiviso che avviene il cambiamento.
In alcuni casi, soprattutto con i bambini molto piccoli o con fragilità comunicative, strumenti alternativi come la musicoterapia, il gioco simbolico o l’uso di pupazzi possono diventare ponti emotivi.
Non tutto passa dalla parola: a volte è un gesto, un suono o un abbraccio al momento giusto a insegnare più di mille spiegazioni.
Educare all’emotività è un atto d’amore quotidiano. Significa stare accanto ai bambini mentre imparano a stare dentro sé stessi. Significa offrire contenimento, comprensione e, soprattutto, tempo. Perché dietro ogni “capriccio” si nasconde un’emozione che chiede di essere vista, non corretta. E quando un bambino si sente visto, impara a vedersi.
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