La capacità di gestire le proprie emozioni non è una competenza che i bambini hanno quando nascono, poiché nei primi anni di vita hanno una sola modalità di trattare il “materiale emotivo” che si agita dentro di loro: lo buttano fuori con forza e senza alcun filtro attraverso il pianto. Questa competenza necessita di essere appresa, allenata e affinata nella relazione con i primi adulti di riferimento. Sono molti i modi in cui i genitori possono accompagnare i figli nello sviluppo di questa abilità.

Quando i bambini possono iniziare ad imparare a gestire le emozioni?

I bambini sono in grado, potenzialmente, di iniziare ad apprendere questa abilità a partire dai due anni di età. Prima dei 24 mesi, infatti, il loro sistema nervoso non è abbastanza maturo per sostenere questo apprendimento, addirittura nei primi nove mesi di vita non hanno neppure la consapevolezza di essere qualcosa di “separato” rispetto alle persone che si prendono cura di loro. A circa due anni inizia ad aprirsi un piccolo spazio di apprendimento: è uno dei più importanti momenti del loro cammino di crescita. In questo periodo il loro sistema nervoso raggiunge un livello più complesso di sviluppo in tanti ambiti in contemporanea: nel movimento, nella comprensione di sé e del mondo, nella consapevolezza di sé stessi e degli altri, nelle relazioni e nelle emozioni. In quest’ultimo ambito è come se accadesse, in misura ridotta, ciò che accade in modo più ampio ed evidente all’inizio dell’adolescenza: le emozioni diventano più complesse e intense, aumenta la gamma di sfumature emotive che i bambini provano ed è come se dentro di loro questo tipo di esperienza “alzasse il volume”.

Una dimostrazione di questo sono alcuni cambiamenti nel loro comportamento: frequenti esplosioni di rabbia o di pianto, fatica ad accettare qualsiasi proposta che esca dal “tracciato” dei loro desideri o aspettative. Una volta questi comportamenti venivano etichettati come “capricci”. Oggi, grazie alle neuroscienze, sappiamo che si tratta di una manifestazione naturale e “sana” del loro percorso di maturazione.

Come possono i bambini imparare a “surfare le onde” che sentono crescere dentro di loro?

Ci sono diversi modi in cui i bambini riescono ad aumentare la loro competenza emotiva. Imparano in primo luogo osservando e imitando gli adulti: la psicologia ci insegna che ogni essere umano tende a comportarsi verso sé stesso e verso gli altri nello stesso modo in cui i primi adulti di riferimento si sono comportati con lui. Un altro canale, forse meno potente ma non meno importante, sono le strategie concrete che noi proponiamo loro per affrontare i momenti più difficili, attingendo dalla nostra creatività ed esperienza. Appartengono a questa categoria tutte le occasioni in cui cerchiamo di aiutarli a stare nella frustrazione attraverso il gioco, le spiegazioni, la costruzione di alternative possibili, lasciando alle loro emozioni lo spazio per esprimersi senza reprimerle o minimizzarle.

Esistono delle “linee guida” per orientare i genitori in questo difficile compito?

Il primo “comandamento” da mettere in campo in materia di bambini ed emozioni è il rispetto. Le emozioni sono reazioni istintive che l’essere umano ha verso gli aspetti della realtà che lo coinvolgono (possiamo modificare i comportamenti che ne conseguono tramite l’apprendimento, ma l’esperienza interna dell’emozione non è soggetta ad alcun tipo di controllo da parte del pensiero o della volontà), per cui per definizione sono sempre giuste a prescindere, poiché hanno sempre un motivo per nascere dentro le persone. Non si possono né creare né distruggere attraverso un atto di volontà, poiché arrivano dalla parte più autentica e adattiva di noi, e portano sempre un messaggio che siamo invitati ad accogliere. Se non lo facciamo, loro alzeranno il volume, sempre di più, o troveranno altri canali dai quali emergere. Per cui, le emozioni dei bambini non vanno mai giudicate, né rifiutate.

Dobbiamo allenarci a gestire la fretta di uscire dalle emozioni scomode dei bambini, a respirarci dentro insieme a loro, sederci a terra con loro con lo sguardo alla stessa altezza dei loro occhi, immedesimandoci nello sconvolgimento che può abitare i loro piccoli corpi e i loro cuori quando vengono attraversati dalla tristezza, dalla frustrazione, dalla paura. Che funzionano come le onde del mare: non possono scendere finché non hanno esaurito tutta l’energia che le alimenta. Per cui, l’unica possibilità è aspettare insieme a loro, offrendo in dono la nostra presenza come punti fermi.

Se vogliamo offrire ai bambini una soluzione, una strategia, un punto di vista, un’opinione su come affrontare la situazione, facciamolo solo dopo avere detto loro la frase: “Capisco che ti senti triste/arrabbiato/spaventato, sai che si potrebbe…”. La prima regola per rendere efficace la comunicazione è far sentire che stiamo vedendo davvero l’altro. Se la nostra opinione viene offerta senza essere preceduta da questo passaggio, troverà la porta chiusa. Altro pilastro dell’educazione emotiva è il nominare tutte le emozioni, insegnare fin da piccoli ai bambini ad associare la sensazione che vivono nel corpo e nella mente con la parole che la indica. Dare un nome significa dare spazio, dare “cittadinanza” a questi stati d’animo dentro di loro.

Infine, è fondamentale per ogni genitore lavorare su di sé, per comprendere e accettare i propri stati d’animo, e poterli condividere con i propri figli, raccontandone le ragioni in un linguaggio semplice e concreto, con esempi presi dal loro quotidiano, per rendere la spiegazione comprensibile. Se i genitori vivono tutta la gamma emotiva e la lasciamo circolare liberamente nella comunicazione in casa, anche i bambini riusciranno a farlo sempre di più, imitandoli. Per non creare la famosa situazione in cui c’è un elefante nella stanza e tutti si girano dall’altra parte. Una brevissima nota finale su tutti i metodi fallimentari che ci arrivano dalle abitudini delle generazioni che abbiamo alle spalle: castighi e premi non funzionano per gestire le crisi emotive perché presuppongono che nell’emozione ci sia intenzione, cosa che non è. Minaccia o tono di voce alto costituiscono invece una prevaricazione sull’altro, generano obbedienza motivata dalla paura e sono la ricetta perfetta per alimentare un bel conflitto che esploderà durante il cammino di crescita, non appena i bambini acquisiranno le competenze per “tener testa” agli adulti.