È ancora doloroso l’eco del fatto di cronaca avvenuto a Padova: una giovane madre ha scosso violentemente il suo bambino di cinque mesi, in un’escalation di stanchezza ed impotenza che l’ha travolta, a seguito di notti insonni passate a vegliarlo per via di un’affezione e con un’altra creatura di poco più grande a cui badare.
Un fatto che ha gettato nello sconcerto tutta una comunità, ma non solo. Non sono mancate le polemiche dentro e fuori dal web con affermazioni come “a certe persone non dovrebbe accadere di avere figli” oppure “io ne ho allevati tre da sola e non mi ha mai vinto la stanchezza”. Ma comprensione e assenza di giudizio sono stati i sentimenti prevalenti, perché tutti i genitori hanno avuto modo di sperimentare certe situazioni esasperanti, per le quali basta una sottilissima linea d’ombra a farle sfociare in tragedia.
Essere genitori è sempre stata un’esperienza complessa. Ancor più in questi ultimi decenni, dove i principali punti di riferimento valoriali sono stati messi in discussione e la precarietà di vita (lavoro, affetti, residenza) sembra non favorire progettualità se non “a scadenza”, mentre si è chiamati ad essere performanti in ogni ambito. Uno su tutti, quello genitoriale.
Le nuove coppie si trovano senza mappe né bussole. Spesso non possono essere sostenute dalle famiglie di origine poiché i nonni sono lontani oppure non sono ancora in età da pensione. Anche reti di amicizie e servizi al passo coi tempi possono essere carenti.
Tutte queste situazioni creano nuclei di isolamento e paura: lo descrive molto bene la regista Cristina Comencini che in un suo libro parla della “solitudine delle madri nei pomeriggi trascorsi al parco la domenica”.
La genitorialità non deve essere idealizzata poiché l’idealizzazione è un processo che porta a negare tutte le sfumature degli affetti che sembrano non rientrare nel cliché della buona mamma e del buon papà.
Il padre della psicoanalisi infantile Donald Winnicot, coniò l’espressione “madre sufficientemente buona” per intendere una funzione genitoriale capace di entrare in contatto empatico con il proprio bambino, cercando cioè di comprendere i bisogni del proprio cucciolo in una danza di reciprocità relazionale, dove il sacrificio e l’annullamento di sé, cosi come il mutuare tout court apprendimenti pedagogici restano su un lontano sfondo.
Affinché ciò accada, le mamme e i papà devono riconoscersi e valorizzare la loro intrinseca capacità di essere genitori, nonostante tutto. Gli aspetti di accoglienza, accudimento, protezione, sono parte di noi e della nostra storia di persone. Non esistono ricette se non quella di ascoltare la nostra persona, fatta di desideri, paure, angosce, fragilità ma soprattutto risorse che possiamo mettere in campo, per farci sostenere l’arduo compito di accompagnare qualcuno sulle strade della vita. Ci si deve sentire liberi di fare la scelta opportuna per il proprio ecosistema familiare, indipendentemente dalle mode: adottiamo la fascia, che ci aiuta a stabilire un rapporto di vicinanza con il nostro piccolo, così come l’allattamento a richiesta e prolungato. Facendo però attenzione: se iniziamo ad assumere il volto della Madonna davanti al sacrificio del figlio, forse è meglio che si inizi a pensare a strade differenti e non è detto che una spinta verso l’autonomia debba essere vista come necessariamente lesiva. E i papà possono essere bravi altrettanto ad accompagnare il sonno del proprio figlio.
Il benessere della coppia e dei figli passano infatti attraverso l’ascolto dei bisogni: essere in contatto con i propri permette di lasciare spazio e ascolto all’altro, favorendo la mediazione e il nutrimento reciproco, fattori protettivi per eccellenza di qualsiasi crisi.
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