L’onicofagia, la cattiva abitudine di rosicchiare le unghie, è nociva e molto diffusa, soprattutto tra gli adolescenti tra i 10 e i 18 anni, ma può anche protrarsi fino all’età adulta.
Questo “vizio” rappresenta un sintomo di disagio interiore e familiare, che può ad esempio essere dovuto a gelosia e rivalità tra fratelli – come nel caso di una nascita che sembra catalizzare le cure dei genitori – oppure può derivare da situazioni più gravi come conflitti fra i genitori, a cui il bambino è costretto ad assistere suo malgrado. Mangiare le unghie diventa pertanto un grido d’aiuto soffocato, un messaggio in codice che il bambino invia ai genitori per ristabilire una migliore vicinanza. Come tutti i comportamenti compulsivi, l’onicofagia è una maniera per scaricare ansia e lo stress.
Si manifesta infatti nei momenti in cui il bambino è attraversato da pensieri carichi di timore o di ansia. Per questo motivo, essa può presentarsi anche al cessare dell’esposizione alle situazioni stressanti, poiché ogni comportamento – disfunzionale o meno – è determinato da motivi interiori (pensieri ed emozioni) più che da cause esterne. Ecco perchè, in generale, è utile consultare uno psicologo, che può aiutare la famiglia a ridefinire gli equilibri in una direzione più salutare o sostenere il ragazzo in un percorso di ricerca di autonomia e di consapevolezza dei suoi pensieri negativi.
Questo comportamento può generare un circolo vizioso: sentimenti di ansia e preoccupazioni di varia natura sono a monte dell’impulso a rosicchiare le dita. In seguito, gli eventuali danni alle dita possono portare il ragazzo a vergognarsi e a sentirsi a disagio nelle interazioni con in pari o coi familiari. Il ragazzo può così abbandonare il campo di prova per l’emancipazione e lo sviluppo sociale. Tale disagio sociale può ricorsivamente intensificare le ansie che alimentano l’onicofagia, chiudendo il cerchio. Sottovalutare il disturbo significa quindi sottovalutare la carica di aggressività e autolesionismo che questo sintomo può indicare.
Difatti, la scarica comportamentale dell’ansia di cui parlavamo prima, viene rivolta a se stessi, anziché all’esterno. Di qui l’importanza di apprendere, per chi mostra onicofagia, ad individuare, comprendere ed esprimere le emozioni, arrivando gradualmente a superare la convinzione disfunzionale che alcune emozioni non vanno espresse (ad es. la rabbia) o perchè “non si addicono” a chi ne è portatore oppure perchè “potrebbero danneggiare gli altri”.
Due tappe importanti della psicoterapia dell’onicofagia sono:
1) apprendere e sperimentare che è possibile sempre negoziare (capire e farsi capire) nelle relazioni;
2) apprendere ad esprimere in maniera efficace e costruttiva le proprie esigenze.
Alla luce di questa comprensione, il lettore può comprendere che, in famiglia, i rimproveri e i metodi punitivi, anche in questo caso sono inutili: com’è possibile ascoltare, sostenere e aiutare ad esprimere le emozioni di un figlio ponendo ulteriore ansia e vergogna nella relazione?
Al bando quindi soluzioni avversive come smalti amari o bendaggio delle dita, a meno che un tale tipo di rimedio non sia intessuto all’interno di una più ampia e profonda risoluzione emozionale. Utile invece lo sport, con l’immensa portata di benessere che procura per numerosi disagi dello sviluppo e la possibilità che offre di scaricare liberamente le tensioni all’esterno.