“Diventare genitori implica non solo l’unione sperma-uovo, ma soprattutto nutrimento fisico e psichico, protezione, guida e aiuto ai bambini. Il fallimento dei genitori nella loro funzione è come una falla nella diga della civiltà”. (David Chamberlain)

La TV ci inonda di storie di madri assassine, che uccidono i propri figli, picchiandoli, privandoli di acqua e cibo, drogandoli per farli stare zitti. Spiegare in un articolo le motivazioni che portano una madre a togliere la vita che essa stessa ha donato, è impossibile. Comprendere una madre che uccide è molto più difficile.

La morte che arriva per mano di chi, culturalmente e geneticamente, è programmata per accudire e proteggere, genera dunque un profondo sgomento, terrore, confusione, paura e destabilizzazione nella collettività. Questo va a cozzare con la cultura dei diritti del minore che con fatica si cerca di diffondere.

Il mio intento è quello di incentivare una politica a sostegno delle madri quando affrontano la maternità. Quella maternità che porta ad una crisi di identità nella donna. Un figlio è gioia, ma cambia il corpo della donna, la vita quotidiana, le priorità e le relazioni. L’antropologa Dora Raphael, parla di matrescenza, in quanto descrive i cambiamenti fisici, psicologici che avvengono quando si diventa madre.

Bisogna capire che non esiste una madre perfetta ma madre sufficientemente buona, che sia sensibile, reattiva e adattiva ai bisogni e alle capacità dei figli.

Molti omicidi si potrebbero evitare se si ponesse l’attenzione su una donna che presenta disagi e difficoltà, sia in contesti patologici sia nelle famiglie “normali”. Pertanto, come dice Marinopoulos: “Il bambino muore per non essere esistito nella testa di sua madre, per non essere stato aspettato”. I motivi che spingono le madri ad essere assassine sono molteplici, come molteplici sono i vissuti di una donna. Può capitare che l’uccisione sia un mezzo per non rivivere, vedendo crescere il bambino, le differenze della propria infanzia ed il rapporto conflittuale con la propria madre.

Ci sono poi madri che vivono in isolamento sociale e svantaggiate economicamente o che non sono state considerate come individuo con una propria identità armonica. Se diversi sono i modi con cui una madre uccide, tutti hanno in comune il fatto che ella si sente arbitro della vita del bambino, considerato come di sua esclusiva appartenenza. La mamma, dunque, può uccidere per vendetta nei confronti del compagno (sindrome di Medea) e vede i figli non come persone con una loro identità, ma come parti del marito, che devono essere espulse.

La madre può uccidere anche:

– per un atto altruistico e salvarlo da qualcosa come una disabilità per evitargli una vita di sofferenza;
– per non essere stata desiderata;
– per non saper adempiere correttamente alla funzione materna(coping maternal);
– per pensare che i figli abbiano rovinato la loro esistenza;
– per negare la gravidanza;
– per ripetere sul proprio figlio la violenza subita durante l’infanzia ed infine perché il bambino è nato da una violenza.

Ci sono poi madri che apparentemente si prendono cura del figlio mentre in realtà vogliono fare male o ucciderlo allo scopo di stare al centro dell’attenzione (sindrome di Munchausen per procura).

Dobbiamo pertanto, iniziare a:

– prenderci cura della maternità e a promuovere e sostenere il benessere dei genitori e delle donne, creando le basi per una buona crescita;
– a pensare che il bambino è un essere unico, con le sue esigenze e bisogni e che diventare madre non è soltanto un evento biologico, ma anche e soprattutto psicologico e relazionale;
– a comprendere che il cammino della gravidanza non è uguale per tutte le donne ma è un percorso individualizzato che dipende dalle caratteristiche soggettive dell’ambiente familiare e sociale che le circonda;
– a capire che dare un sostegno in gravidanza potrebbe sanare alcune ferite derivate dall’infanzia e offrire l’occasione per rompere la trasmissione di modelli transgenerazionali disfunzionali;
– ad aiutare i genitori a comprendere il loro futuro, incrementando la comunicazione nella rete familiare e migliorando l’ambiente che circonda la famiglia;
– ad aiutare il partner a sostenere il percorso della gravidanza, a favorire la relazione madre-bambino,attraverso il sostegno alla propria compagna, l’accudimento e la collaborazione oltre che creare un clima tranquillo e confortevole;
– a riconsiderare la maternità, perché per essere madre non basta partorire.

La donna deve vivere la propria condizione con senso di sicurezza e fiducia, deve avere una storia familiare positiva ed essere circondata da un ambiente sano. E poi, sono tante le donne che in gravidanza o nel primo anno dopo il parto presentano sintomi di disagio psicologico, anche se non rientrano nei criteri diagnostici della depressione e dell’ansia, possono essere comunque disabilitanti ed impattare negativamente sul benessere e sulla qualità di vita della donna durante la gravidanza, il puerperio e nel primo anno di vita del bebè. Qualora emergessero delle difficoltà e problematiche sarebbe utile la Home visitation, colloqui domiciliari che aiutino la neo mamma a sentirsi compresa ed accolta empaticamente rafforzando il senso di autocontrollo e l’autostima riuscendo cosi ad identificare i bisogni del bambino in modo adeguato (Fiore,2016).

Un’altra strategia che potrebbe essere utile è la creazione di una rete sociale, così da permettere di affrontare il ruolo materno con tranquillità, migliorare le competenze genitoriali al fine di ridurre i fattori di rischio. Insomma, un bambino per crescere ha bisogno di un intero villaggio (proverbio medioevale).