Lo sapevate che un legame profondo e amorevole con chi si prende cura del bambino durante la prima infanzia è una base fondamentale per la formazione dell’autostima? Proprio così!
La parola autostima deriva dal termine “stima”, ossia la valutazione e l’apprezzamento di sé stessi: è la stima che si ha di sè, rappresenta il valore che diamo a noi stessi e alle nostre capacità. È un processo inoltre che si forma e si struttura durante tutta la vita, specialmente i primi anni, ma si può modificare nel tempo.
Come posso sviluppare l’autostima nel mio bambino?
In generale, potrei iniziare dicendo che l’assenza di giudizio gioca un ruolo predominante: elogiarlo o giudicarlo davanti alle sue azioni (ad esempio dire “sei proprio bravo” oppure al contrario “sei monello e stupido”) non è mai una scelta vincente: molto meglio premiare e commentare le sue azioni ed il suo impegno (ad esempio “che disegno colorato che hai fatto” oppure “il tuo gesto non era bello, quella persona si è arrabbiata”).
Ad ogni modo soddisfare i suoi bisogni primari ed emotivi, farlo sentire ascoltato, apprezzato, incoraggiato e amato per ciò che è, libero di esprimere opinioni ed emozioni, lo aiuterà a sentirsi amato in modo incondizionato. Di conseguenza la sua autostima sarà alta ed in grado di proteggerlo anche in futuro e lo aiuterà ad essere resiliente davanti alle sfide della vita che inevitabilmente si presenteranno.
Da dove deriva invece una bassa autostima?
Molto spesso una bassa autostima può dipendere da una legame genitore-bambino inadeguato.
Prendiamo in esame allora vari tipi di genitorialità disfunzionali per l’autostima.
Il genitore anaffettivo
A volte capita che i genitori, cresciuti in un contesto anaffettivo che rispecchiava i valori di una volta secondo cui per essere forti non bisognava mostrare sentimenti, facciano più fatica ad entrare in empatia con i bisogni affettivi dei figli.
Inoltre sento spesso madri e padri stanchi perché impegnati a lavorare molto e nel contempo privi di sostegno nella loro genitorialità. Quando accade ciò capita che bisogni primari del figlio non vengono accolti e soddisfatti.
Ciò causa malessere e disagio non solo fisico ma anche emotivo del bambino.
Quando i genitori non sanno entrare in contatto con i bisogni del figlio, può accadere che ciò determini una percezione fallimentare che il bambino ha di sè. Insomma è come se lui pensasse: “Deve esserci qualcosa di sbagliato in me se tutti rimangono indifferenti ai miei bisogni”. Tutto ciò può ledere anche l’autostima del bambino.
Genitori che trasmettono l’amore in modo condizionato
Ci sono genitori che adorano ed elogiano i propri figli solo quando mostrano lati positivi, quando si mostrano dolci, affettuosi, felici, quando non fanno “capricci” e non sono richiedenti o “scomodi”. Nel contempo tendono involontariamente, a volte convinti sia buona educazione, a rifiutarli quando provano rabbia, quando sono lamentosi, quando piangono e hanno un disagio emotivo. Queste mamme e questi papà sono in grado di amare solamente la parte idealizzata del figlio, non il figlio reale con i suoi bisogni, esigenze, emozioni. Questo tipo di relazione può portare il bambino a sentirsi indesiderato, rifiutato, indesiderabile. Il bambino si sente amato solo se è buono o perfetto. I bambini che hanno interiorizzato ciò arrivano a percepirsi senza valore, ovvero non percepiscono il reale valore che hanno di se stessi.
Genitori giudicanti
Quando tutto ciò che fa il bambino è sottoposto a giudizio, soprattutto i comportamenti “negativi” o meglio dire non consoni rispetto alla situazione per il punto di vista dei genitori, questo limita il bambino nella sua libertà di esprimersi, di dire, fare, agire, pensare conducendolo ad inibire progressivamente le sue emozioni, le sue azioni e le sue reazioni poiché teme sempre il giudizio altrui. Il bambino comincia a sentirsi sbagliato per com’è.
L’ideale invece sarebbe parlare riferendosi sempre all’azione: “Provo rabbia davanti al tuo gesto” e non “Sei stupido, non vedi cosa hai fatto?”.
Genitori iperprotettivi
Si tratta di genitori emotivamente invadenti che proteggono eccessivamente il proprio figlio o i figli, preservandoli da delusioni, da situazioni difficili, da emozioni scomode o indesiderate che inevitabilmente si troveranno però ad affrontare nella loro vita.
Un atteggiamento di questo tipo non permette al proprio figlio di sperimentare e imparare a gestire le proprie emozioni, anzi talvolta si trova a percepire che sia sbagliato sentirsi tristi o arrabbiati poiché mamma o papà cercano subito di farmi tornare il sorriso come se fosse appunto pericoloso sentirsi tristi.
A lungo andare questo atteggiamento iperprotettivo influenza l’emotività del bambino, compromettendo la sua autostima anche in età adulta.
L’iperprotezione è un modo dell’adulto di esorcizzare le proprie paure sull’altro (in questo caso il figlio) tentando invano di proteggere inconsciamente se stesso. È come se percepisse il pericolo imminente, il quale spesso però è irreale e deriva dal proprio passato, dalla propria storia personale. Il bambino diventa quindi un “contenitore”, una proiezione di ciò che egli vive a livello emotivo. Il bisogno di controllo del genitore spesso deriva da insicurezze molto profonde e inconsce, quindi.
In questo modo il genitore depriva il proprio figlio dell’autonomia e delle capacità decisionali e, a lungo andare, potrebbe provare sofferenza o sia davanti a decisioni che dovrò inevitabilmente prendere o davanti ad eventi impegnativi che non riuscirà ad elaborare e vivere nel migliore dei modi, nel pieno delle sue capacità. L’autoaffermazione in età adulta sarà quindi molto più difficile.